Introduzione

NATI VIVI, VOLEVANO VIVERE, di Pierfrancesco Giannangeli

Ci sono strade che portano vicino o lontano, dipende in quale direzione le si percorre. Possono avvicinare al vivere civile o allontanarci dai principi della convivenza. In mezzo, sicuramente, ci sono paesaggi che descrivono scenari sociali, punti di vista, umanità. La metafora della strada è utile per comprendere il senso di Pioggia, testo vincitore della XVI edizione del Premio Ugo Betti per la Drammaturgia.
Sulla strada, infatti, tutto comincia. È lungo di essa che sorge la casa cantoniera dove si ritrovano, poiché tutti fanno lo stesso lavoro, i quattro operai che proprio di manutenzione delle strade si occupano. Siamo nell’hinterland milanese, e loro sono tre italiani e un immigrato turco. È notte, il momento propizio per l’affacciarsi dei fantasmi che abitano insieme a ciascuno di noi, e la pioggia batte incessantemente sui vetri, sull’asfalto e nell’anima. È il titolo del testo e la sua colonna sonora. È il suo respiro interiore, il ritmo di cui parlava quello splendido visionario di Appia, il martellamento di sottofondo con cui Marco Pezza, l’autore del testo, racconta una storia che affonda le sue radici in un fatto di cronaca (o in tanti episodi di microstoria che ormai quotidianamente ci passano accanto e ci scivolano addosso: sempre troppo tardi si riesce a capire che stanno facendo prendere alla Storia, quella maggiore, una piega, o una strada come verrebbe da dire in questo caso, precisa, come tanti punti di non ritorno).
La capacità di scrittura di Pezza trasforma, trasfigura questo episodio, in una parabola umana, intrisa di contemporaneità. Si parla di difficile accettazione dell’Altro, in quanto inteso e percepito come Diverso, di complicato dialogo tra le generazioni, di fascismi duri a scomparire, impersonati dal quinto protagonista. E lo si fa senza sconti e senza cadere nella banalità di un certo manicheismo dei nostri tempi o in quella delle idee preconfezionate. Viviamo in una società complessa, che attraverso il teatro – che non deve essere mai semplice cronaca, ma, al contrario, assumere in sé valori e disvalori del proprio tempo per trasferirli sul piano superiore della creazione artistica – si presenta al pubblico e dal teatro riceve interrogativi ed elementi di profonda riflessione.
Fa bene Marco De Marinis, presidente della giuria del Premio Betti, nelle motivazioni con cui è stato assegnato il premio, a sottolineare certe aderenze di scrittura, che però non diventano mai parentele, con Pinter e Koltès, soprattutto per quanto riguarda quella sottile violenza, sempre trattenuta, che attraversa il testo. Il linguaggio con cui Marco Pezza ci presenta la questione è asciutto, serrato, dinamico, non cede mai alla tentazione di quella verbosità che oggi attanaglia presunte prove autoriali e che finisce per inficiarne il pensiero. Nello stesso tempo, la relazione di Pezza con i personaggi, così come li ha pensati quella servetta che pirandellianamente si chiama Fantasia, non è improntata al giudizio, ma al contrario è orientata alla comprensione, all’interno di quella che Steve Gooch chiama «la passione della vita». Anch’essi, come i ben noti Sei personaggi, «nati vivi, volevano vivere».
E qui arriviamo all’altro elemento di valore del testo, che consiste nel suo essere pronto per la messinscena. La solida esperienza teatrale dell’autore – che appartiene alla generazione dei trentenni ma dimostra già un’ottima preparazione, figlia di un’adeguata formazione e una robusta esperienza di attore – gli consente di pensare la sua storia in proiezione, su quell’orizzonte di senso che trasforma le parole in azioni sceniche. Gli elementi caratterizzanti di ciò che chiamiamo comunemente spettacolo, all’interno di queste pagine, sono tutti ben presenti. Non va mai dimenticato, infatti, che i testi teatrali non nascono per essere letti, bensì per venire rappresentati. E il giovane Marco Pezza, alla fine, dà ragione a un padre nobile come Eduardo De Filippo, che nel primo atto de L’arte della commedia descrive l’autentico autore teatrale come colui che «entra dalla porta del palcoscenico ed esce insieme al pubblico a braccetto, da quella della platea»